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I confronti tra la rivoluzione egiziana ed altre rivoluzioni del passato abbondano e sono istruttivi. Suggeriscono due scenari per il periodo post-rivoluzionario.
La rivoluzione d’Egitto viene considerata come un sorprendente nuovo sviluppo, il risultato dell’era di Internet. Ma è piuttosto simile al tradizionale scenario rivoluzionario predetto da Karl Marx alla metà del diciannovesimo secolo, una disperata protesta contro la povertà di massa, conseguenza di un capitalismo dilagante. La sua relazione con il rovesciamento di regimi autoritari nell’Europa orientale ed in Russia negli anni ’90, come rappresentata dall’adozione del saluto con il pugno alzato del Otpor serbo, è però superficiale. Un paragone più adatto in termini economici è quello con le Filippine, un altro paese povero con una grande popolazione di contadini.
Il dittatore filippino Ferdinand Marcos (1965-86), come il presidente egiziano Hosni Mubarak, era uno stretto alleato degli U.S.A., e le Filippine ospitavano una grande base americana vitale per il suo controllo del sud Pacifico. Marcos giustificava il suo governo autoritario e la sua legge marziale agli Stati Uniti come fondamentale per tenere lontani gli oppositori musulmani e comunisti.
Ma la grande miseria, la corruzione e l’élite scontenta avevano creato le condizioni per un rovesciamento, e un’ultima elezione truccata e l’omicidio del leader liberale dell’opposizione Benigno Aquino portarono finalmente gli Stati Uniti ad appoggiare l’opposizione. Questo sollecitò l’esercito a cambiare fazione, e Corazon, la vedova di Aquino, divenne presidente nel 1986. La rabbia popolare per la presenza dell’esercito americano costrinse Aquino a chiudere la base americana nel 1992 come gesto simbolico per il popolo. Ma Aquino era ben istruita in Reaganomia, la nuova politica neo-liberale di capitalismo sfrenato, e fece in modo di adempiere all’agenda economica americana con un capitalismo prorompente.
Questo era perfettamente logico, date le sue (e dell’élite militare) credenziali, tutti addestrati negli Stati Uniti e pro-Americani. A meno di un anno dall’inizio della sua presidenza, 15.000 contadini tennero una manifestazione pacifica chiedendo alla Presidente Aquino di dare una garanzia sulla riforma agraria. La squadra antisommossa apri il fuoco uccidendo 17 manifestanti. Come scrive Alfred McCoy circa l’ordine pubblico dell’Impero Americano: “Quando i negoziatori comunisti abbandonarono i continui discorsi pacifici per protestare contro quello che chiamavano ‘Il massacro di Mendiola’, il presidente ‘sguainò la spada della guerra’”, lasciando intatta l’insurrezione comunista e islamica ed impoverendo ulteriormente il popolo”.
L’opportunità di avere un leader realmente popolare emerse in seguito al rovesciamento di Marcos, quando quest’ultimo era ancora presente: il populista Joseph Estrada, una star del cinema con una bassa istruzione scolastica, con una vittoria schiacciante nel 1998 promise di aiutare i poveri, ma venne messo da parte, accusato per la sua situazione finanziaria, e la vice presidente, istruita in America, Gloria Macapagal-Arroyo prese il suo posto, con il sollievo dell’élite imprenditoriale statunitense. Da quel momento lo spettro politico si è limitato a concedere al massimo una scelta tra i rappresentanti dell’élite, e l’attuale presidente Benigno III figlio dell’ex presidente Aquino.
Il tacito consenso alla “guerra al terrorismo” americana ha reso impossibile un vero cambiamento, e la presenza militare americana si trova ancora una volta rafforzata. La rivoluzione è stata messa in pericolo e le Filippine continuano ad andare avanti senza speranza, con una violenta povertà, anche se con un’elezione democratica che funge da fattore legittimante. Questo è uno scenario che potrebbe presentarsi in Egitto se gli Stati Uniti otterranno ciò che desiderano.
Durante questo periodo, l’Egitto sotto Hosni Mubarak stava anche mettendo in pratica l’agenda neo-liberale, proprio come fece la democratica Corazon Aquino. In termini di politica, sembra che democrazia o autoritarismo non faccia molta differenza dato il ruolo di potere che gli USA ricoprono in paesi come Filippine ed Egitto. Come prova l’esperienza filippina, è preferibile avere un’elezione democratica in cui gli Stati Uniti possano effettivamente controllare sia il maggior partito sia l’opposizione. Questo sembra essere il motivo per il quale gli USA hanno aumentato i fondi per “il sostegno della democrazia” dei dissidenti egiziani negli ultimi anni per poi abbandonare finalmente Mubarak senza scrupoli.
Quali sono le prospettive dell’aprirsi di un altro scenario, che implichi un rifiuto radicale del sistema economico di fondo?
Il primo partito politico ad essere stato riconosciuto dall’inizio della rivoluzione è Al-Wasat (Centro), un partito riformista islamico, ma il secondo sembra essere il Partito Egiziano dei Contadini, ed i sindacati indipendenti stanno prendendo voti ovunque con il loro Partito Democratico dei Lavoratori in via di realizzazione. Immediatamente in seguito si è potuto assistere alle dure proteste della rivoluzione da parte dei lavoratori dei settori pubblici che chiedevano contratti a tempo indeterminato. Sotto Mubarak, questa politica socialista del lavoro sicuro era stata largamente abbandonata, applicata solo per chi avesse un contatto all’interno del Partito Democratico Nazionale al potere, lasciando milioni di lavoratori preoccupati per la possibilità di perdere il lavoro il giorno dopo.
I lavoratori continuano a chiedere di triplicare il minimo sindacale per contrastare l’inflazione che ha portato milioni di persone sotto la soglia della povertà. Il regime militare ha tagliato i salari dell’élite governativa, mettendo un tappo sulla paga degli impiegati statali. Si parla anche di entrate minime/massime e di richiedere una tassazione progressiva che freni l’estrema ricchezza che si sono sviluppati sotto Mubarak (l’Egitto tassa il 20% sulle entrate). Ma non c’è un movimento socialista visibile che abbia la statura della Fratellanza Islamica conservatrice, la quale appoggiava l’infitah del presidente Anwar El-Sadat e le riforme del 1997 di Mubarak consentendo un illimitato possesso di terra e la restituzione dei terreni confiscati da Gamal Abdel-Nasser.
Sfortunatamente, scrive Abu Atris su aljazeera.net, “l’intensa speculazione su quanto denaro abbia rubato il regime di Mubarak… è un depistaggio” a patto che l’Egitto rimanga uno stato neo-liberale riciclando assetti privatizzati attorno alla ricca élite. Deve esserci un chiaro rifiuto della filosofia neo-liberale che tutto sia in palio, che il mercato sia l’unico regolatore economico. L’educazione, la sanità, l’ambiente — questi sono fatti sociali della vita e devono essere protetti da un governo forte ed indipendente che non sia subordinato al mercato (o al diktat degli USA). “L’Egitto di Mubarak ha svalorizzato scuole ed ospedali, e ha garantito paghe inadeguate, in modo particolare nel settore privato in continua espansione. Questo ha trasformato centinaia di attivisti in milioni di manifestanti”.
Con le dimissioni del primo ministro di Mubarak, Ahmed Shafik, e del suo governo venerdì scorso e con la nomina del ex ministro dei trasporti e critico di Mubarak Essam Sharaf come nuovo primo ministro, la domanda piccante oggi è: l’ordine neo-liberale imposto dagli USA sopravvivrà in Egitto? L’esercito sta faticando per riportare un po’ di ordine politico incaricando “tecnocrati” apparentemente neutrali della solita crisi governativa. Ma non c’è niente di neutrale nella “teoria della distribuzione capillare” e non ci sono “tecnocrati” egiziani con esperienza nello smantellamento di un ordine neo-liberale intimamente legato all’impero statunitense.
Gli Egiziani possono guardare ai paesi che hanno chiaramente rifiutato un tale percorso negli ultimi anni, paesi latino americani come Venezuela, Argentina, Ecuador o Brasile, i quali hanno istituito riforme radicali e hanno resistito con successo all’egemonia americana? Questo è l’altro scenario per i rivoluzionari egiziani, nonostante la parte più geopoliticamente sensibile dell’Egitto faccia ogni tentativo per sfidare la tensione americana in modo pericoloso. Il principale candidato alla presidenza, il Presidente della Lega Araba Amr Moussa insiste sul fatto che le relazioni con l’America debbano essere “eccellenti e forti”.
L’atteggiamento dell’esercito, mentre controlla circa il 10% dell’economia ed è stato il principale beneficiario della sovvenzione americana sotto Mubarak, è la chiave per capire quale scenario prevarrà. Viene visto dai funzionari americani come una forza regressiva che si oppone alla privatizzazione. Paul Sullivan della Georgetown University dice: “C’è una caccia alle streghe nei confronti della corruzione, e c’è un rischio che l’economia possa ritornare allo stato in cui era con Nasser”. Mi suona bene.
La nostalgia nei confronti del regime (dittatoriale) di Nasser rimane forte in Egitto, anche tra coloro che sono nati dopo la morte di Nasser. A volte, i dittatori sono necessari — per confrontare le élite radicate che si rifiutano di condividere la loro ricchezza. Ci sono però scarse possibilità di avere un nuovo Nasser. Qualsiasi scenario si apra in Egitto avrà a che fare con un disordinato battibecco politico e coalizioni instabili mentre gli Egiziani assaporeranno il frutto proibito di un’elezione democratica.
Forse i sostenitori del socialismo si coalizzeranno attorno ad una nuova versione di Nasser, uno che possa formare una coalizione operante con la Fratellanza Islamica. Nonostante la Fratellanza Islamica sia orientata verso il capitalismo, i suoi obiettivi principali sono la fine della corruzione e migliorare i servizi sociali. Il suo supporto alla rivoluzione è stato la chiave del suo successo e si sta ora preparando a lanciare un partito modellato sull’esempio del Partito turco della Giustizia e dello Sviluppo — Il Partito della Giustizia e della Libertà.
Non c’è alcun dubbio, come nelle Filippine, che l’unica risposta al problema economico egiziano — alto tasso di disoccupazione, estrema povertà, servizi sociali vacillanti ed un profondo abisso tra ricchi e poveri — sia una forte dose di socialismo.
Egitto e Tunisia sono le prime nazioni capaci di rovesciare i loro regimi neo-liberali. Ironicamente, la loro mancanza di democrazia si è rivelata un vantaggio, costringendo le masse impoverite a riunirsi contro gli oppressori. Gli incauti cronisti americani chiedono: “Il Venezuela sarà il prossimo Egitto?”. Ma la domanda corretta è: “L’Egitto sarà il prossimo Venezuela?”
(Traduzione di Giuliano Luiu)
* Eric Walberg scrive per “Al Ahram”.