Si chiama “Effetto Farfalla” la teoria secondo cui piccole variazioni nelle condizioni iniziali di un sistema produrrebbero grandi variazioni nel suo comportamento a lungo termine. Per spiegare tale teoria sono state utilizzate varie esemplificazioni, come quella per cui il battito d’ali di un gabbiano sarebbe sufficiente ad alterare il corso del clima per sempre. La simpatica espressione fu coniata dal matematico statunitense Edward Norton Lorenz, che nel 1972 intitolò una propria conferenza: “Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?”
Le dinamiche della teoria del ”Effetto Farfalla” possono tornare utili anche nell’analisi geopolitica, soprattutto alla luce delle numerose interrelazioni esistenti, nella congiuntura attuale, a livello politico, economico, sociale tra i diversi attori nazionali, paranazionali e sovrannazionali che agiscono nel mondo.
Può una manovra di politica monetaria negli Stati Uniti rovesciare un governo in Africa settentrionale?
Nei giorni scorsi, Barry Ritholtz, commentatore economico del canale televisivo statunitense MSNBC, ha presentato in un reportage la teoria secondo cui le crisi nordafricane e mediorientali sarebbero direttamente connesse alle recenti manovre economiche decise dalla banca centrale degli Stati Uniti d’America1.
Ritholtz ha spiegato come nel novembre del 2010 Ben Barnanke, presidente della Federal Reserve, avesse approvato una vasta manovra di iniezione di dollari nel sistema bancario per supportare la crescita economica. Pertanto, la FED aveva disposto la stampa di nuove banconote per un valore di seicento miliardi di dollari, immessi nel sistema attraverso l’acquisto di buoni del Tesoro per una cifra corrispondente.
Una tale operazione aveva causato l’inevitabile perdita di valore del dollaro statunitense, con un conseguente aumento dei prezzi dei beni primari. L’azione congiunta di svalutazione della moneta e inflazione non giova, generalmente, ad alcun paese. A maggior ragione, la perdita di valore di una moneta come il dollaro, che continua ad essere la valuta di sostegno di quasi tutti i beni agricoli e non agricoli commerciati nel mondo, non poteva non avere conseguenze importanti sull’intero sistema economico mondiale. Tali conseguenze erano state sottolineate da autorevoli organismi internazionali, come la FAO, che alla fine del 2010 aveva denunciato un picco storico dei prezzi dei beni alimentari e dei prodotti agricoli. Il Food Outlook2 emesso dalla FAO nel novembre del 2010 collegava l’aumento dei prezzi da un lato ad un calo delle riserve di prodotti agricoli nei principali paesi produttori, dall’altro alla recente svalutazione del dollaro statunitense.
Un tale aumento dei prezzi può avere conseguenze indesiderate su tutti i paesi; tuttavia, ne possono risentire maggiormente i paesi in via di sviluppo. Spiega Omar Bessaoud, economista all’Istituto Agronomico Mediterraneo di Montpellier, che in paesi come l’Egitto il 55% del reddito procapite è utilizzato dal cittadino medio per il procacciamento di cibo, contro una media del 2% per il cittadino francese. Questo dato illustra adeguatamente la percentuale di influenza esercitata da un aumento dei prezzi dei beni alimentari sui redditi dei cittadini di diverse aree del mondo.
Nel caso di un paese come l’Egitto, poi, come anche nel caso di altri paesi dell’area, dove nei mesi precedenti si erano già verificate manifestazioni di intolleranza nei confronti dell’aumento dei prezzi, dove esistono forti rivendicazioni sociali e dove il malcontento generale nei confronti delle attitudini autoritarie e corrotte da parte del governo cresce di anno in anno, l’ ”Effetto Farfalla” di un aumento dei prezzi può assumere notevoli dimensioni.
Sulla base di queste ed altre considerazioni, Barry Ritholtz aveva concluso, nel suo reportage, che le manovre di sostegno all’economia attuate dalla FED avessero causato le rivolte che si stanno verificando in diversi paesi del Mediterraneo meridionale e del Vicino Oriente.
Aumento dei prezzi: qual è la causa?
La risposta di Ben Barnanke a queste accuse non ha tardato ad arrivare. Il presidente della FED ha infatti spiegato come la vera causa dell’innalzamento dei prezzi dei beni agricoli non sarebbe il dollaro statunitense, ma piuttosto la stessa crescita economica. Nella fattispecie, la crescita delle economie emergenti, prima fra tutte la Cina. Infatti, secondo Barnanke, l’aumento della richiesta di beni alimentari da parte della Cina e delle altre economie emergenti avrebbe causato una diminuzione delle scorte e pertanto un aumento generale dei prezzi.
A questa obiezione, alcuni economisti hanno risposto che in realtà la Cina è un importante consumatore di riso, di cui possiede un’ottima produzione capace di soddisfare la domanda interna, e che l’alimentazione della sua popolazione non ha ancora raggiunto un livello di diversificazione tale da causare carenze a livello globale.
Un’altra spiegazione è data dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, che nel 2010 ha denunciato in un rapporto come le scorte di beni alimentari stiano diminuendo a causa dell’aumento dell’utilizzo di biocarburanti. Secondo una tale teoria, negli ultimi anni milioni di ettari di mais sarebbero stati stornati dal consumo alimentare per essere indirizzati verso la produzione di biocarburanti. In questo modo, l’offerta di beni alimentari sarebbe diminuita, causando così un generale aumento dei prezzi.
Infine, c’è chi, come il presidente francese Nicolas Sarkozy in occasione dell’ultimo vertice dei G20, identifica la causa dell’aumento dei prezzi delle materie prime, tra cui i beni alimentari, nel perdurare dell’attività speculativa. Sembra infatti che gli speculatori, in seguito allo scoppio della bolla del mercato immobiliare, si sarebbero concentrati sul mercato dei beni alimentari.
Il “Contro-effetto Farfalla”
La teoria dell’Effetto Farfalla non presuppone che l’effetto da essa delineato abbia limiti. Pertanto, se il battito d’ali di una farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas, appare logico prevedere che lo stesso tornado in Texas provocherà altri effetti in Europa, in Asia, o addirittura nello stesso Brasile, magari travolgendo proprio la farfalla da cui era stato originato.
In maniera analoga, può accadere che i frutti della politica monetaria attuata dalla FED statunitense provochino un serie di instabilità in diverse aree del mondo, ad esempio il Nord-Africa, che, a lungo andare, potrebbero presentare a loro volta delle conseguenze negative per gli stessi Stati Uniti.
E non solo.
Già prima della fuga di Hosny Mubarak dall’Egitto, gli analisti e molti giornali internazionali denunciavano un aumento costante del prezzo del petrolio dopo l’inizio dei tumulti egiziani. Se alla fine di gennaio 2011 un barile di petrolio sul mercato di Londra, una delle piazze di riferimento principali per il prezzo dell’oro nero, sfiorava pericolosamente la cifra simbolica di 100 dollari, circa tre settimane dopo tale cifra era superata, toccando un picco non più registrato da ottobre 2008. Un tale fatto aveva necessariamente allarmato i mercati internazionali. Il New York Times spiegava, tra gennaio e febbraio 2011, come le perdite della borsa newyorkese fossero dovute non tanto alla crisi della zona euro e nemmeno ai bisticci commerciali tra Cina e Stati Uniti, quanto piuttosto alla rivolta in Egitto, un paese non certo tra i principali esportatori di petrolio. Per quale motivo? La risposta è semplice: l’Egitto controlla un punto di passaggio fondamentale per le navi che trasportano il petrolio dalla Penisola Araba, il Canale di Suez, nonché un importante oleodotto, il Sumed. La minaccia di instabilità nel paese che gestisce il Canale di Suez ed il Sumed, attraverso i quali passa circa il 4,5% del petrolio mondiale diretto perlopiù verso Europa e Stati Uniti, ha creato grande inquietudine nei mercati internazionali, con un conseguente rialzo dei prezzi.
Tuttavia, non è soltanto l’Egitto a preoccupare i mercati europei e statunitensi. Inquietano anche le situazioni di Libia, tra primi venti produttori e ottavo paese per riserve di petrolio al mondo, e l’Algeria, entrambi membri dell’OPEC, a differenza dell’Egitto, e pertanto attori strategici importanti in questo settore. La Libia, poi, è uno dei maggiori esportatori mondiali di gas, diretto soprattutto in Europa ed in Italia. L’instabilità crescente in Libia e la minaccia di nuove manifestazioni antigovernative in Algeria non possono che accrescere i timori già accesi dalla crisi egiziana.
Inoltre, un altro rischio minaccia la stabilità dei prezzi del petrolio e delle materie prime: il contagio verso altri paesi dell’area ben più importanti sul mercato di petrolio, come l’Arabia Saudita e l’Iran.
Il caso dell’Arabia Saudita sembra preoccupare maggiormente gli analisti, rispetto all’Egitto. Nel Regno dei Saud abita una minoranza, il 10% della popolazione, di musulmani sciiti, da sempre marginalizzati e vessati dal governo saudita, di impronta sunnita wahabita. Il malcontento tra gli sciiti sauditi è forte, e raramente i giornali locali raccontano degli scontri che avvengono tra esponenti della minoranza e le forze dell’ordine saudite. Gli sciiti sauditi sono concentrati per lo più nella zona occidentale dell’Arabia Saudita, nella regione in cui si trovano alcuni tra i più importanti giacimenti del paese, come quelli di Safaniya, Shaybah o Ghawar. Le autorità saudite sembrano attualmente molto preoccupate dal rischio di contagio delle proteste dall’area nord-africana alla Penisola Araba stessa e soprattutto temono un infiammarsi della rivolta da parte della minoranza sciita. Da Riad si sono sollevate accuse verso “agitatori esterni”, che avrebbero già provocato, secondo la versione proposta dal re saudita Abdullah stesso, la rivolta in Egitto con lo scopo di destabilizzare il paese. Le accuse sembrano rivolte al principale antagonista dell’Arabia Saudita nella regione, l’Iran sciita. E’ diffuso infatti nella Penisola Araba il timore che l’Iran stia cercando di creare una sorta di “mezzaluna sciita” attraverso l’Iraq, il Bahrein e l’area del Golfo, sperando così di diventare una forza egemonica nella fornitura di petrolio mondiale. Nella fattispecie, le autorità saudite temono che l’Iran si possa servire dei malcontenti della minoranza sciita in Arabia Saudita per scardinare il sistema di controllo e di repressione del dissenso messo in atto nel paese. Certamente, la situazione del Bahrein, dove la popolazione sciita, in maggioranza, ha dato luogo ad una serie di manifestazioni contro la famiglia reale sunnita, non può che aver ingigantito tali timori.
D’altra parte, nemmeno l’Iran, da parte sua, sembra immune dalla paura di nuove proteste. Dopo aver represso duramente le manifestazioni della cosiddetta “Onda Verde” nel 2009, il governo iraniano ha dovuto constatare come il dissenso tra la popolazione non sia ancora estinto. Il 14 febbraio scorso sono ricominciate le proteste a Tehran e in altre città del paese, e i manifestanti hanno chiesto a gran voce che la Guida Suprema del regime teocratico, l’ayatollah Ali Kamenei, lasciasse il potere seguendo le orme di Ben Ali e Mubarak. Malgrado le proteste siano state fronteggiate dalle forze di sicurezza iraniane con una certa decisione, sembra infatti che siano state utilizzati anche gas per disperdere i manifestanti, risulta chiaro come gli eventi del Nord-Africa e di altri paesi del Vicino Oriente abbiano dato nuova linfa al movimento antigovernativo.
I fatti che si stanno verificando nell’Africa settentrionale, nella Penisola Araba e nel Vicino Oriente sembrano quindi comportare conseguenze dirette e importanti nei confronti della politica estera e dell’economia degli Stati Uniti. A livello politico, la rimozione di uomini come Ben Ali e Mubarak, figure chiave nel sistema di controllo di un ordine imposto da ormai troppi anni su un’intera regione, nonché la minaccia di analoghe rimozioni o destabilizzazioni in altri paesi, appare già come una conseguenza rilevante. A livello economico, la destabilizzazione dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime sembra già aver danneggiato i mercati internazionali, quelli statunitensi compresi, e non è facile prevedere quali potrebbero essere le conseguenze di un allargamento della crisi anche su paesi-chiave per la produzione e l’esportazione del petrolio, come l’Arabia Saudita o l’Iran. Diversi analisti parlano del rischio che si ripeta una crisi petrolifera simile a quelle del 1973 o del 1979.
Sembra quindi, in ultima analisi, che il “contro-Effetto Farfalla” sia in piena progressione.
Alcune conclusioni
Malgrado possa apparire suggestiva l’immagine, fino a qui presentata, del “contro-Effetto Farfalla”, essa è certamente più semplificativa rispetto alla realtà. Certamente, se la manovra di politica monetaria attuata dalla FED alla fine del 2010 ha avuto ripercussioni sul prezzo dei beni alimentari e agricoli, essa non è l’unica spiegazione di un tale rialzo. Le cause proposte all’inizio dell’articolo sono solo le principali tra tutte quelle che possono essere evidenziate e, probabilmente, l’influsso congiunto di tutte e di altre, in diversa misura, può aver causato l’innalzamento dei prezzi. Come, del resto, tale innalzamento non può essere riconosciuto come unica causa scatenante delle rivolte e delle manifestazioni che stanno avvenendo nel mondo arabo, quanto piuttosto una delle concause che, unitamente a malcontento sociale, a repressione politica e ad altri fattori, hanno esasperato le società di tali paesi.
L’immagine del “contro-Effetto Farfalla”, tuttavia, aiuta a comprendere il livello di interazione e di relazione esistente nell’attuale scenario internazionale. In un mondo sempre più interrelato e collegato, intrecciato da sempre più fitti canali di interscambio economici, politici, sociali e culturali risulta possibile che una qualsiasi mossa di un attore internazionale possa provocare una serie di conseguenze, tali da sconvolgere l’ordine sistemico fino ad allora stabilito. In una tale prospettiva, diventa particolarmente importante la responsabilità che ogni attore, soprattutto i più influenti, si trova a dover gestire. Le rivolte e le manifestazioni del mondo arabo stanno segnando una fase storica importantissima per la regione e per tutto il mondo. E’ interesse di tutti che gli attori internazionali, i nuovi che emergeranno dalle ceneri dei vecchi regimi e i vecchi che rimarranno al loro posto, agiscano, per il futuro, con la consapevolezza della responsabilità di cui si fanno carico.
Giovanni Andriolo è dottore magistrale in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino).
Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”.
Note.
1 – www.ritholtz.com/blog/2011/02/did-the-fed-cause-unrest-in-the-arab-world/
2 – www.fao.org/docrep/013/al969e/al969e00.pdf