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La provocazione: mettiamo sotto plexiglas Enrico Toti?

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17 marzo 2011


La provocazione: mettiamo sotto plexiglas Enrico Toti?

CHI HA AVUTO HA AVUTO, E CHI HA DATO
HA DATO, RICUORDAMMOCE ‘O PASSATO
PER NON SBAGLIARE DI NUOVO

E “scordiamocelo” per costruire “qui e ora”, senza la farsa-tragedia dei risarcimenti e delle false indipendenze, rapporti equi fra le diverse Italie

Claudio Moffa

Non solo il Risorgimento, ma anche la Prima guerra mondiale e la Resistenza – le tre pagine storiche principali su cui si pretende di fondare di solito la nostra identità e unità nazionale – devono essere soggette alla libera critica storica: che il Risorgimento sia stato un movimento gestito dall’alto, da una minoranza responsabile anche di massacri e repressioni contro un popolo del sud che si pretendeva di liberare e che venne invece assoggettato e spesso rapinato dalle politiche annessioniste; che la prima guerra mondiale, rispetto alla quale l’Italia all’ultimo momento cambiò campo di alleanze, sia stata un grande massacro inutile e doloroso per quel che attiene il ridisegnamento dei confini, ivi compreso il Sud Tirolo-Alto Adige, perché l’Impero austroungarico conferiva sostanziale autonomia alle minoranze etniche e linguistiche, italiani compresi; che infine, la Resistenza non solo comprese pagine crudeli – come tutte le guerre civili – ma inoltre sia stata fortemente condizionata dalle trame e dagli interessi delle potenze vincitrici, soprattutto quelli angloamericani, infiltratisi dentro le sue fila fino a determinare come ogni probabilità eventi cruciali della II guerra mondiale a cominciare dalla fucilazione di Mussolini: che tutto questo sia assumibile come una critica positiva perché volta a comprendere la storia passata per meglio capire il presente, questo è sostanzialmente e generalmente vero.

Ma il voler dedurre da queste revisioni storiche più o meno datate, la necessità di un ritorno alle divisioni preunitarie è assurdo, antistorico e soprattutto a rischio di ripercorrere sotto nuova forma – non unitaria, ma balcanizzata – esattamente gli stessi errori del passato, assoggettandosi sia pure inconsapevolmente agli stessi poteri forti internazionali e transnazionali che operarono nel risorgimento e nella prima guerra mondiale. Gli Stati estesi si difendono dalla globalizzazione meglio che gli staterelli privi di consistenza territoriale, economica e finanziaria. Questi possono credere di diventare “indipendenti” separandosi dallo Stato esteso, e invece diventano privi di potere internazionale, come insegna il caso della vicina ex Jugoslavia.

Bisogna tener presente due elementi chiave.

Il primo è che la storia dell’Italia non si riduce solo ai tre momenti “forti” sopra ricordati: sia perché la tradizione culturale, la letteratura a cominciare dal grande Dante Alighieri, l’arte, la musica italiane, e tutto quello che rappresenta l’essere italiani, sono un dato di fatto unificatore del nostro paese, e questo pur nel rispetto delle diversità interne, da non negare. Sia perché esiste una unità linguistica di fatto, resa necessaria dall’esistenza di un apparato amministrativo e giudiziario unitario, e rafforzata nell’ultimo secolo dalla diffusione straordinaria dei mass media, in particolare la radio e la televisione: giudico questo processo assolutamente positivo, e sono contrario al “recupero” di dialetti o lingue, che spesso sono più una “invenzione” – come nel caso della lingua ebraica – che reali. Le ghettizzazioni linguistiche – riedizione moderna dell’orribile mito della Torre di Babele, dove il progresso viene bloccato da un dio tribale che semina odio e incomprensione fra le diverse etnie che lavorano alla grandiosa impresa – sono negative: parlare la stessa lingua, ovviamente garantendo una istruzione così fondata a tutti, vuol dire progredire verso la conoscenza e la fratellanza con l’altro.

Il secondo elemento da considerare è che accettare una deriva secessionista vuol dire ottenere due effetti negativi: il primo – tipico è il caso di molti movimenti meridionalisti – è favorire la grande finanza internazionale e dunque l’aspetto oppressivo e di rapina della globalizzazione, e inoltre dare maggiore spazio nel quadro continentale al direttivismo totalitario della Unione europea mai ben contrastato dagli Stati esistenti, e sicuramente assai più libero di opprimere le sovranità nazionali in caso di staterelli di piccole dimensioni: il risultato delle secessioni oggi non è – eventuali eccezioni a parte, da individuare – una “indipendenza”, ma invece un assoggettamento a un potere feroce, ben più forte di qualsiasi potere “giacobino” interno. Le secessioni e certi federalismi “radicali” postbipolari se non portano tutti un unico segno di co-determinazione esterna, sono comunque molto problematici dal punto di vista delle istanze che avevano pensato di promuovere: il federalismo economico iracheno rapina metà della popolazione del bene petrolio e sta distruggendo un paese un tempo unito e operativo nella realtà internazionale; idem le istanze secessioniste del delta del Niger; la balcanizzazione della Jugoslavia, salutata positivamente secondo una vetusta chiave di lettura “anticomunista”, porta il segno degli Albrights, Holbrooks, e dello stesso Israele, sostenitore attivo dei musulmani bosniaci e – via Soros – dei kosovari albanesi. E’ un dato di fatto che le balcanizzazioni, come dimostra per il Medio Oriente il piano Oded Ynon del 1982, sono in generale consustanziali al sionismo: esso ha bisogno come l’ossigeno di frantumare gli Stati esistenti seminando odi fra le sue diverse popolazioni, perché essendo espressione di una minoranza razzisticamente fondata sul dogma endogamico e dunque destinata a restare tale, “deve” puntare a “minoranzizzare” i paesi in cui sia presente e operi per poterli meglio egemonizzare.

E se mettessimo sotto plexigas Enrico Toti?

Il secondo effetto negativo del secessionismo – vedi il caso in Italia dell’Alto Adige – è che spesso ripropone gli stessi problemi rovesciati: ciò accade soprattutto in territori popolati a macchia di leopardo, dove non è possibile separarsi dal vicino di quartiere, e dunque non è possibile pensare di risolvere la “questione nazionale” costruendo o ripristinando vecchi confini a loro volta ingiusti: la secessione eritrea del 1991 ha separato artificiosamente almeno tre popolazioni di quello che era prima del referendum uno stato unitario: i Cunama, i Tigrini e gli Afari. In Alto Adige-Sud Tirolo, come riconosceva ad esempio il verde Lanzinger, il problema dei rapporti italo-tedeschi, non si risolve con il ritorno della regione all’Austria ma piuttosto “sciogliendo” il confine con l’Italia, e dunque, in generale, costruendo entità statuali o federali più ampie; ovvero, nelle relazioni intra-comunitarie, stemperando le memorie nazionali reciproche per evitare il rischio della permanentizzazione dell’odio interetnico.

Mettere sotto plexiglas il monumento a Enrico Toti, così come l’affresco di Maometto nella Basilica di San Petronio di Bologna, per difendere da una parte la memoria storica e l’arte nostrane, e dall’altra per capire e far capire che i conflitti del passato possono e devono essere superati? Sì, se a questo corrisponde un riequilibrio positivo dei rapporti fra italofoni e tedescofoni: senza oppressioni dei primi sui secondi , ma nemmeno senza retoriche delle minoranze e conseguente vessazione della maggioranza, come ormai spesso accade in tante situazioni inter-relazionali culturali, etniche, religiose, sessuali.

Non sto deviando dalla questione delle celebrazioni del 151° anniversario dell’Unità nazionale. Le “questioni nazionali” sono sempre correlate a una pluralità magmatica di elementi e fattori, fenomeno sociopolitico ultracomplesso tra quelli complessi, come riconosciuto esplicitamente e/o implicitamente da studiosi di ogni tendenza, che sia Battaglia sulla Treccani o lo stesso “sistematizzarore” Stalin nel suo saggio del 1913. Quanto appena detto dovrebbe comunque indurre a riflettere sulla necessità che anche la questione Italia, come tutte le questioni nazionali, sia affrontata con equilibrio: può sembrare questa una frase scontata, ma non lo è, e dunque, per andare subito al concreto e senza rifugiarmi in frasi generiche, concludo credo con estrema chiarezza di intenti con due altri capitoli essenziali.

Il primo è costituito dall’immigrazione, nei fatti destinata a mutare nel tempo le caratteristiche del nostro essere italiani. Sono sempre stato a favore della legge Bossi-(Fini), e per un controllo radicale dei flussi immigratori contro le pietose teorizzazioni fataliste (non si può far nulla etc.) della sinistra e di certo mondo cattolico. L’accordo con la Libia – oggi purtroppo a rischio – non solo è stato il giusto riconoscimento di una (nostra) idea di identità nazionale da ripulire delle eredità mazziniane e di stampo colonialista (Mazzini teorizzò, dentro l’ampia “missione storica” dell’Italia, la colonizzazione della Tunisia: ma del resto lo stesso fece Labriola con la Libia, sul versante socialista) ma anche lo strumento della necessità di reprimere l’immigrazione senza regole rispettando – come sin qui abbiamo sempre fatto – la normativa nazionale e internazionale, e dunque i cosiddetti “diritti umani”.

Aggiungo che sono favorevole a due provvedimenti apparentemente contraddittori tra loro: sì alle moschee, perché una volta fatta la frittata non si può negare la libertà di culto alle centinaia di migliaia di musulmani residenti in Italia; no all’insegnamento dell’arabo nelle nostre scuole – una proposta buonista-multiculturalista di Tullio De Mauro, negli anni Novanta – sia per motivi economici evidenti, sia perché tutti gli stranieri in Italia con prospettiva di residenza permanente devono imparare la nostra lingua, per una migliore integrazione, per rispetto del nostro paese e per una migliore difesa dei loro stessi diritti e agibilità, quando si recano negli uffici pubblici, in un negozio per acquistare qualcosa o magari in Tribunale. Lo diceva, ai nostrani figli di contadini di Barbiana la cui barriera linguistica era “di classe”, Don Milani, maitre a penser del pensiero di sinistra e cattolico degli anni Sessanta e Settanta.

Il secondo capitolo riguarda la difesa degli interessi nazionali fuori (ma anche dentro) i nostri confini. Schiacciati dalla questione meridionale e dal martellamento mediatico sull’Italia di 150 anni fa, quasi mai se ne parla: personalmente credo che dentro i nostri confini l’obbiettivo centrale – molto difficile, bisogna quanto meno aspettare il riequilibrio dei poteri costituzionali lesi negli ultimi decenni dall’arroganza della casta giudiziaria – dovrebbe essere il recupero almeno progressivo della nostra sovranità territoriale (le basi USA) e economica: vale a dire il ripristino della Banca nazionale come Banca di Stato, contro lo scempio della sua privatizzazione da parte del centrosinistra, e anche un maggiore controllo sui settori chiave e strategici del nostro apparato produttivo.

Fuori dei nostri confini, è più che maturo il ritiro dall’Afghanistan, una presenza militare che tanti morti ha causato non solo a noi, ma anche alle popolazioni civili dei paese occupato. Di nuovo torna l’attualità – attualità nel senso degli stessi nemici dentro l’Occcidente da combattere, ma certo in un contesto storico molto peggiore – di Enrico Mattei, un politico-manager che portava all’estero il nostro tricolore, ma non per issarlo sulle caserme in paesi stranieri occupati per una presunta “difesa dei diritti umani” e una chimerica lotta al “terrorismo islamico”, ma per farlo sventolare sui pozzi petroliferi attivati in cooperazione con il paese ospite. Un messaggio di commercio equo, di pace e di fratellanza, fatto da un leader democristiano, capitalista sia pure di stato e – secondo almeno Cossiga – fra i fondatori della Gladio. Come vedete, fuori dagli schemi destra-sinistra e mettendo al primo posto i contenuti, si può ragionare, anzi senz’altro di ragiona molto meglio.


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