I diciotto giorni di piazza Tahrir
Il mondo ha seguito con grande attenzione lo scoppio della protesta in Egitto, il 25 gennaio, e le evoluzioni che ne sono seguite, ma una nazione in particolare ne aspettava gli esiti col fiato sospeso: Israele. Avendo come interesse primario la sicurezza del paese, il primo ministro Netanyahu ha più volte espresso a stampa e media internazionali ansietà per il futuro del suo vicino. Allo stesso tempo ha avviato numerosi colloqui con partner americani ed europei per valutare i possibili scenari futuri. Quando l’11 febbraio scorso Mubarak si è dimesso, la prima preoccupazione della leadership israeliana è stata quella di assicurarsi che gli impegni presi dall’Egitto con la firma del trattato di pace del 1979 sarebbero stati mantenuti, preoccupazione subito placata dal Generale Sami Anan, capo di stato maggiore del Consiglio supremo delle forze armate in Egitto, con l’annuncio che il suo paese onorerà i trattati firmati con le altre nazioni, riferendosi in particolare proprio al trattato del ‘79. Allo stesso tempo però, sempre con la giustificazione del rispetto di trattati precedenti (in questo caso la Convenzione di Costantinopoli del 1888 sul passaggio di navi militari nel canale di Suez), il governo provvisorio ha concesso il passaggio a due navi da guerra iraniane che dal 22 febbraio stazionano nel porto di Latakia, in Siria. Il governo israeliano ha cercato di opporsi e ha definito l’atto come provocatorio e senza precedenti, visto che non avveniva dallo scoppio della rivoluzione iraniana.
La situazione di transizione che il Cairo sta attraversando in questi giorni non permette di avere un’idea chiara su come le conquiste ottenute in piazza verranno consolidate a livello politico. In attesa di elezioni, il paese è guidato dall’esercito: i poteri presidenziali sono de facto esercitati da Mohamed Husain Tantawi, comandante in capo, seguito nella catena di potere dal comandante di Stato maggiore, il generale Anan. In un paese come l’Egitto non deve stupire che in situazioni di crisi la guida del paese venga affidata alle forze militari: l’esercito ha assunto una posizione di rilievo sin dal 1952 con la rivolta degli ufficiali e la successiva ascesa al potere di Nasser. Per tentare di riportare il paese ad una situazione di normalità nell’attesa di poter indire elezioni, Tantawi ha diffuso un comunicato attraverso il quale invitava il popolo egiziano a tornare ai posti di lavoro per non infierire ulteriormente sull’economia nazionale, già duramente provata dalle proteste dei giorni passati. Non è chiaro però quando e in che termini il Consiglio supremo delle forze armate si farà da parte e permetterà l’elezione di un nuovo presidente. Ciò che sembra più evidente a questo punto è che nessuno dei nomi citati come possibili candidati si possa configurare come leader carismatico in grado di raccogliere ampi consensi. Da una parte infatti si è parlato di Omar Suleiman e di Amr Moussa, nomi già noti per il coinvolgimento col governo di Mubarak. Il primo, ex capo dell’apparato dei servizi segreti egiziani, era stato nominato vice presidente il 29 gennaio in un estremo tentativo di mantenere la carica e attendere elezioni a settembre; il secondo, ex segretario generale della Lega Araba, ha un passato nel Partito Nazionale Democratico, schierato a favore di Mubarak. Il loro passato influisce dunque a livello di credibilità popolare, in particolare quello di Suleiman, infrangendo così le speranze di Israele che lo prefiguravano come candidato ideale.
Dall’altra parte, più volte è stato fatto il nome di Mohamed ElBaradei, direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica fino al 2009 e ambasciatore per l’Egitto alle Nazioni Unite. Allo scoppio delle proteste in Egitto si era schierato in prima fila contro Mubarak. Nonostante la sua fama internazionale, ElBaradei ha poca esperienza negli affari interni del suo paese e la sua candidatura futura è molto incerta.
Tuttavia la grande incognita, e il tema onnipresente in ogni analisi sull’Egitto odierno, è il ruolo che i Fratelli Musulmani rivestiranno nel futuro governo. Il gruppo sta cercando di prendere parte al processo di rinnovamento politico del paese, e ha fatto richiesta per diventare un partito politico il 22 febbraio. Ufficialmente considerato illegale, è in Egitto uno dei gruppi meglio organizzati. Nel comunicato che chiedeva l’accesso alla scena politica ha dichiarato che il partito “prevede l’istituzione di uno Stato democratico e civile che si basa su misure universali di libertà e giustizia, con al centro i valori islamici, al servizio di tutti gli egiziani, indipendentemente dal colore, religione, tendenze politiche o di religione“.
La risposta del governo provvisorio a queste richieste non si è ancora delineata chiaramente, ma un evento sembra sottolineare un nuovo atteggiamento di apertura verso i Fratelli Musulmani: la scelta del Consiglio supremo di affidare la direzione della commissione che si occuperà di emendare la Costituzione a Tariq al-Bishri, ex giudice e islamista moderato, considerato molto vicino ad esponenti della Fratellanza musulmana.
Allo stato attuale, la partita che si sta giocando al Cairo suscita per Israele la più vasta gamma di reazioni, dalle più citate ansie e scenari negativi, alla più positiva visione del cambiamento come portatore di nuove possibilità di cui anche Israele potrà beneficiare.
Ansie e paure
Lo spettro della nascita di un nuovo Iran è stato il primo timore che la rivolta in Egitto ha suscitato per Israele. Il 1979 è un anno che è stato ricordato spesso dai media israeliani durante i tumulti in Cairo. Si tratta di un momento storico che ha visto il rovesciamento della struttura delle alleanze del paese nel giro di pochi mesi: lo shiah Pahlavi, miglior alleato d’Israele nella regione, è stato rovesciato durante una rivoluzione che ha portato al potere l’ayatollah Khomeini, che definiva Israele come “nemico dell’Islam” e “piccolo satana”. D’altro canto, è proprio nel ’79 che Israele ha firmato con l’Egitto, ex nemico storico, un trattato di pace facendone il primo paese arabo a riconoscerlo. In pericolo oggi è dunque il sistema delle alleanze, influenzate dalle forze interne che agiscono negli stati. Ancora una volta, lo spettro della nascita di un governo islamico alle porte di casa è la paura maggiore per Tel Aviv. In un’intervista per This Week, il 13 febbraio scorso, il ministro della Difesa Ehud Barak ha dichiarato che le relazioni con l’Egitto non sono a rischio ma desta grande preoccupazione la possibile ascesa dei Fratelli Musulmani a livello politico, poiché è probabile che possano ottenere la maggioranza alle elezioni. Alla considerazione, fatta dall’intervistatore, che la Fratellanza sembri aver tenuto un basso profilo durante la rivoluzione, e non abbia intenzione di candidare un presidente, Barak ha risposto che è proprio la loro organizzazione che potrebbe ottenere i vantaggi maggiori dalla rivoluzione egiziana, anche se non ne è stata promotrice in un primo momento. E il rischio che la situazione a Gaza possa degenerare a favore di Hamas è ben presente nella dirigenza israeliana.
Una seconda causa di ansietà riguarda il fronte di sicurezza che la trentennale relazione tra Mubarak e i leader israeliani aveva consolidato. Il presidente egiziano in qualche modo personificava la stabilità dei confini, era un elemento chiave della sicurezza del fronte meridionale. Mubarak era stato in grado di separare due piani della relazione con Israele: dal punto di vista ufficiale aveva sempre tenuto le distanze e, a differenza del suo predecessore Sadat, non aveva compiuto visite ufficiali facendo in modo di non alienarsi l’opinione pubblica araba. Aveva però sempre mantenuto un canale di dialogo aperto a livello di comandi militari e intelligence. Questo aveva permesso ad Israele di agire senza curarsi della reazione dell’opinione pubblica egiziana, mentre ora potrebbe diventare più rischioso se le masse popolari prendessero il potere al Cairo. Inoltre, ben più grande era stato il vantaggio a livello di budget per la difesa del confine a sud: ricostruire un fronte di sicurezza si rivelerebbe estremamente costoso. Negli ultimi anni, infatti, la spesa si è aggirata intorno al 9% del PIL, arrivando al 6,7% nel 2010, mentre negli anni precedenti al trattato di pace raggiungeva il 23%. D’altronde, agire preventivamente e aumentare lo spiegamento di forze armate in questo momento potrebbe essere rischioso in termini di percezioni che il nuovo contesto egiziano potrebbe avere.
Un terzo motivo di preoccupazione, seppur d’importanza marginale rispetto ai precedenti, riguarda le possibili ripercussioni negative sull’interscambio commerciale tra Israele e Egitto.
I legami economici tra i due paesi sono limitati ma non inesistenti, e si basano su due diversi settori: quello dell’industria tessile e quello del gas naturale. Il primo settore opera sotto quella che è stata chiamata Qualifying Industrial Zone, un’iniziativa statunitense che istituisce delle zone industriali speciali in Egitto e Giordania. I prodotti manifatturieri fabbricati in queste zone beneficiano di un accordo per il quale non sono sottoposti a dazi o restrizioni doganali all’entrata negli Stati Uniti, a condizione che parte delle materie prime, almeno il 35% del valore del prodotto finito, provengano da Israele. L’altro settore in cui i due paesi hanno legami economici è quello del gas naturale. Più del 40% del gas importato da Israele arriva dai gasdotti egiziani presenti nel nord del Sinai, con un introito per quest’ultimo paese di circa 300 milioni di dollari l’anno e che si prevede si aggirerà intorno al miliardo nel 2015.
Infine, Tel Aviv ha sicuramente in mente l’effetto contagio che gli accadimenti in Egitto potrebbero suscitare in altre regioni vicine, in primo luogo nei territori palestinesi. Si tratta naturalmente di un diverso tipo di richieste, visto che i palestinesi non cercherebbero di cambiare la leadership del loro governo ma di porre un freno alle divisioni politiche all’interno della popolazione stessa. A questo proposito, il gruppo palestinese End of the Division sta progettando per il 15 marzo una manifestazione collettiva che emuli quella dei fratelli egiziani, tunisini e libici.
Speranze e nuove opportunità
Nelle ultime settimane sono state avanzate anche ipotesi meno burrascose per il futuro delle relazioni tra Israele e Egitto.
La prima ipotesi vede nella rivoluzione egiziana una concreta possibilità di diffondere la democrazia nella regione, sostenendo l’idea che sarebbe preferibile avere come interlocutori dei governi eletti democraticamente invece che dei dittatori. Propongono questa tesi alcuni commentatori israeliani e in particolare Nechama Duek, che citando il parallelo storico con l’Europa dell’est dopo la caduta del muro di Berlino sottolinea come la conclusione di un trattato firmato vis-à-vis con la popolazione di un paese sia più forte e più durevole di un accordo stipulato con un’unica persona.
Una seconda considerazione, più di carattere pratico e meno idealista, vede nella situazione contemporanea un’ottima occasione per aprire nuovi canali di dialogo con Siria e Palestina, entrambe preoccupate per un’estensione degli sconvolgimenti nella regione e magari interessate a stringere nuove alleanze. Da questo punto di vista, Israele si trova in un momento d’isolamento rispetto ad altri attori regionali, soprattutto dopo la rottura con la Turchia l’anno scorso, e potrebbe sfruttare l’occasione per riaprire la comunicazione con altri attori, avanzando nuove proposte di pace o rispolverando l’Arab Peace Initiative del 2002. Secondo Arab News, un governo egiziano eletto dal popolo avrebbe più credibilità, aumentando così la pressione su Israele per poter negoziare un accordo. Anche altre fonti arabe considerano questo momento decisivo per ottenere sviluppi nel processo di pace mediorientale.
Infine Meron Rapoport, dalle pagine del quotidiano israeliano Haaretz, commenta come l’esempio di una rivoluzione non violenta potrebbe essere d’ispirazione per i palestinesi, e far propendere verso la scelta della diplomazia invece che della violenza. L’assunto, alquanto discutibile, dev’essere per forza accompagnato da un’analisi dell’atteggiamento di Israele ma anche dalle considerazioni che nascono dai fatti odierni in Libia, dove il modello egiziano non è stato replicabile.
Considerazioni finali
Il lungo elenco di scenari possibili, positivi o negativi, mira ad avere un quadro il più esaustivo possibile della situazione ma non deve essere fuorviare rispetto a quello che è il primo e principale interesse di Israele, la sicurezza nazionale. La notizia di questi giorni dell’aumento delle truppe israeliane al confine con l’Egitto è un chiaro segnale della reazione di Tel Aviv verso i futuri sviluppi all’interno dello stato confinante. Maggiore sarà il grado di coinvolgimento dei Fratelli musulmani nelle decisioni politiche, maggiori saranno le azioni che Israele dovrà intraprendere, come si è visto sia per motivi storici legati alla rivoluzione iraniana, sia per il rafforzamento dei legami tra Hamas e l’Egitto, sia per il pericolo dell’effetto contagio in altri paesi arabi, in particolar modo dei territori palestinesi. Una soluzione alternativa alla creazione di uno stato islamico potrebbe essere il tanto citato modello della Turchia, che fungerebbe da ispirazione per il nuovo governo egiziano. Anche questa possibilità però non sarebbe ben accolta da Israele, che attraversa un periodo di gelo con Ankara dovuto in parte all’atteggiamento di Erdogan, che per fini di coesione interna addita sempre più spesso Tel Aviv tra i nemici della nazione. Infine, la possibile permanenza al governo di generali dell’esercito comporterebbe un intenso lavoro diplomatico per cercare di ristabilire una soluzione di equilibrio quale quella che si era creata con Mubarak, ma al momento i segnali della leadership militare verso Israele sono discordanti e non permettono di fare previsioni.
* Rita Borgnolo, Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università statale di Milano)