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Channel: Scorie nucleari – Pagina 193 – eurasia-rivista.org
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Libia al collasso

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Fonte: “Affari internazionali

 

Sulla scia delle proteste tunisine e egiziane anche i giovani libici sono scesi in piazza, ma in Libia, a differenza che in Tunisia e in Egitto, le dimostrazioni si sono trasformate in guerra civile. Le forze occidentali si sono schierate prontamente dalla parte dei ribelli, ma gli scontri in corso rischiano di far riaffiorare le antiche fratture interne al paese e di precipitare la Libia nello stato di divisione e conflittualità che Gheddafi, grazie a un complesso gioco di alleanze tra tribù, clan e famiglie, era riuscito, anche se solo in superficie, a sedare.

La società libica, infatti, è stata caratterizzata da una lotta incessante tra tribù e famiglie per il potere politico ed economico, che si riflette sulle poche e fragili istituzioni nazionali esistenti, prima fra tutte l’esercito.

La lunga marcia dell’indipendenza
La divisione formale e amministrativa della Libia moderna risale al XIX secolo, quando l’impero ottomano invase per la seconda volta il paese (1835) ponendo fine alla dinastia dei Karamanli che non era riuscita a sanare le profonde divisioni politiche interne in quello che, per più di cento anni era stato de facto uno stato semi-autonomo.

Anche se già sotto la dinastia dei Karamanli Tripoli aveva acquisito un ruolo di primo piano come centro della vita economica e politica a scapito delle altre province, fu durante il dominio ottomano che le differenze regionali, basate su interessi tribali e religiosi contrastanti, divennero più marcate, con importanti conseguenze per lo sviluppo economico e sociale del paese.

Durante la successiva occupazione coloniale italiana (1911-1943), i notabili locali alla guida di governi regionali in Tripolitania e Cirenaica, non riuscirono a fare fronte comune contro l’invasore a causa delle conflittualità esistenti tra loro, al punto che lo stesso governo italiano si vide costretto a riconoscere una certa autonomia alle due province, che furono autorizzate a costituire parlamenti e consigli amministrativi separati.

Mentre nel 1918 nasceva in Tripolitania il primo governo repubblicano del mondo arabo, in Cirenaica l’ordine religioso senussita era riuscito a catalizzare il dissenso nella regione contro l’invasore, ma non dimostrò altrettanta tenacia nel raggiungere un compromesso con i notabili dell’est. Nel frattempo, la Francia aveva occupato il Fezzan, la regione sudoccidentale del paese che si estende per intero nel deserto del Sahara.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, le divisioni interne al paese riemersero, con la Tripolitania orientata verso il raggiungimento dell’unità nazionale, la Cirenaica in cerca di autonomia e il Fezzan favorevole al proseguimento dell’amministrazione francese. A ricomporre i pezzi di quel che restava dell’ex colonia italiana fu Adrian Pelt che, incaricato di guidare la fase di transizione nel 1949, condusse il paese all’indipendenza nel 1951.

Monarchia federale
La Libia nasceva, quindi, come una monarchia federale all’interno della quale veniva garantita una sostanziale autonomia alle tre province. Tuttavia, la famiglia dei Sanusi – la cui storia si intrecciava con quella del movimento religioso senussita presente in Cirenaica dalla metà del XIX secolo – aveva un ruolo di primo piano, grazie al re Idris al-Sanusi, nella gestione degli affari del paese. Vennero così privilegiati gli interessi politici ed economici delle tribù della Cirenaica rispetto a quelli delle popolazioni tripolitane.

Dopo la scoperta di giacimenti di idrocarburi alla fine degli anni cinquanta, le compagnie petrolifere insistettero per l’unificazione e l’armonizzazione delle leggi e della struttura burocratica del paese, inducendo il monarca a riformare lo stato in senso unitario (1961). Nello stesso periodo, tuttavia, emerse in modo sempre più chiaro che, a parte un ristretto gruppo di nazionalisti, i libici si identificavano per lo più con la famiglia, la tribù o la regione, o con la comunità islamica dei credenti, ma certo non con la nazione libica.

Il regime di Gheddafi, instauratosi nel 1969, è riuscito a tenere insieme la nazione libica attraverso richiami ideologici al nazionalismo arabo prima, al panarabismo poi e infine al panafricanismo, ma la sua vera forza stava altrove: nella redistribuzione delle ricchezze nazionali attraverso sussidi e benefici sociali, nell’imponente sistema di sicurezza volto a controllare e reprimere oppositori politici, media e movimenti islamisti, e infine nella capacità di influire, attraverso un attento gioco di intese ed alleanze, sulle tribù e le famiglie su cui è fondata la società libica.

L’errore dell’intervento militare
La guerra civile in corso rischia di scoperchiare il vaso di Pandora delle divisioni e rivalità interne. Stiamo già assistendo a vere e proprie “secessioni multiple”: varie realtà, da quella costituitasi intorno a Bengasi, a quelle di Derna e Beida per finire a quella di Misurata, si sono venute costituendo in modo indipendente fra loro.

La separazione di fatto della Libia in due parti riapre ferite che si credevano ormai rimarginate. Anche qualora il leader libico venisse ucciso o il regime implodesse, non si avrebbe l’unificazione della Libia sotto un governo democratico, ma uno “stato fallito” nel quale tribù, clan e bande armate si fronteggerebbero in un crescente disordine.

Il mancato impegno negoziale e diplomatico dei paesi occidentali e la folle scelta dell’intervento armato sembrano preludere a questo scenario devastante. Una vera comprensione della fragilità della società libica, come sopra descritta, è proprio ciò che è mancato nell’analisi di quanti hanno creduto nella guerra umanitaria e nell’idea che il regime libico potesse essere rovesciato attraverso la violenza e l’aggressione.

A questo punto bisognerebbe cercare, con il fondamentale sostegno degli Stati Uniti, di convincere il leader libico ad abdicare, in modo tale da permettere un negoziato tra un suo successore, i rivoltosi bengasini e la Nato, magari sotto gli auspici delle Nazioni Unite. Solo così si eviterebbero l’implosione dello stato e il perpetuarsi della guerra civile.

 

 

Karim Mezran è direttore del Centro studi americani. Ha recentemente pubblicato, con S. Colombo & S. van Genugten, “L’Africa mediterranea: storia e futuro”. Roma: Donzelli Editore, 2011-05-13.

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