Il nostro redattore Daniele Scalea è stato intervistato giovedì 28 aprile da “Radio Italia”, emissione italiana dell’IRIB, a proposito della decisione del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi di utilizzare velivoli italiani per missioni di bombardamento contro la Libia.
Segue la trascrizione integrale dell’intervista, che può essere riascoltata tramite la registrazione incorporata in questa pagina. La fonte originale è:
Signor Scalea, l’Italia parteciperà ai bombardamenti NATO sulla Libia: lo ha annunciato il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in una telefonata al presidente degli Stati Uniti. Qual è il suo parere in merito?
Bisogna notare che questa è stata una delle pochissime decisioni di politica estera di Berlusconi ad aver ricevuto il plauso, pur titubante, anche delle forze di opposizione. Al di là dei distinguo che si fanno per giochi di politica interna, la posizione del Centro-Sinistra era per una partecipazione più decisa alla guerra: non a caso alcuni esponenti del Partito Democratico hanno già garantito l’appoggio alle scelte di Berlusconi. Penso che questo ci offra la giusta chiave di lettura.
Berlusconi finora aveva rappresentato una sorta di anomalia, nel bene e nel male, a livello di politica estera dell’Italia. Aveva preferito una sua politica personalistica, anche a costo d’allontanarsi talvolta dall’ortodossia diplomatica imperante dal secondo dopoguerra ad oggi. La decisione di mettere da parte tutti i dubbi che nutriva ed aveva anche espresso fino a pochissimi giorni fa sull’intervento libico per schierare l’Italia a pieno titolo nella coalizione bellica, rivela secondo me la decisione di Berlusconi di reinserirsi nella tradizionale linea di politica estera italiana. Essa è stata ben descritta da un alleato di Berlusconi, in quest’occasione critico, come Umberto Bossi, il quale ha rinfacciato al Presidente del Consiglio di non capire che non si diventa importanti dicendo sempre “sì”; ogni tanto bisogna anche essere capaci di dire di “no” per difendere i propri interessi.
Ma questa pratica di cercare d’assumere rilievo internazionale dicendo sempre “sì” è una pratica tradizionale della diplomazia italiana, almeno dal ’45 in poi. Si è pensato che l’Italia, sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, per tornare a pesare ed avere voce in capitolo nelle grandi questioni internazionali, dovesse essere sempre a disposizione dei suoi alleati. Dire sempre di “sì” alla NATO e sempre di “sì” agli altri paesi europei. L’Italia è stata uno degli attori più positivi nel processo d’integrazione europeo, perché tra tutti i grandi paesi continentali è stato quello che più volte ha rinunciato a difendere l’interesse nazionale pur di agevolare l’integrazione.
Questa pratica, in vigore ormai da decenni, non ha portato ai risultati che probabilmente ci si attendeva: infatti l’Italia a livello internazionale non ha un grosso peso, e lo avrà sicuramente meno dopo questa scelta. Tuttavia, la nostra diplomazia soffre d’una serie di complessi. Per usare un’espressione usata da Lucio Caracciolo nei giorni immediatamente successivi alla decisione del Governo italiano d’appoggiare la campagna dell’ONU contro la Libia, uno dei complessi è quello del “posto a tavola”: volere a tutti i costi schierarsi con questa coalizione, benché andasse chiaramente contro i nostri interessi, nell’illusione che avendo un ruolo anche minore si potesse poi partecipare dei profitti di questa missione. Evidentemente non è stato il caso, perché fin da subito l’Italia è stata esclusa dal comando e dalla gestione delle operazioni contro la Libia. Malgrado quest’ultima assunzione d’ancora maggiori responsabilità (per giunta tardiva, e dunque debole), si può supporre che l’Italia continuerà a non contare. Il vertice italo-francese si è concluso con l’accettazione da parte di Berlusconi di tutte le condizioni poste da Sarkozy. L’unica contropartita ottenuta dall’Italia è l’assenso francese alla nomina di Mario Draghi alla BCE. Considerando che Draghi è un elemento più legato alla finanza statunitense che alla nazione italiana, il beneficio per l’Italia è minimo, posto che ve ne sia.
Si apprende da una nota di Palazzo Chigi che l’Italia ha deciso di aumentare la flessibilità operativa dei propri velivoli contro specifici obiettivi militari sul suolo libico. Ma è così che si può proteggere la popolazione civile?
Il pregio di questo conflitto è che la maggior parte dell’opinione pubblica ha compreso fin da subito quali fossero le reali motivazioni dietro ai pretesti propagandistici. A differenza d’altri casi – Serbia, Afghanistan, Iraq – in cui i pretesti della prima ora sono creduti, almeno inizialmente, veritieri dalla maggior parte della popolazione, le giustificazioni dell’intervento in Libia hanno subito suscitato perplessità. Non credo sia necessario un grosso sforzo per dimostrare che lo scopo dell’intervento in Libia non è certo quello di difendere la popolazione civile, bensì favorire una delle due parti impegnate nella guerra civile; parte che tra l’altro, in base a rivelazioni abbastanza attendibili avvenute nel corso delle ultime settimane, è stata armata e finanziata e coordinata da un centro estero, cioè dai Francesi. Questo è quindi un intervento schiettamente imperialista e neocolonialista; quelli che davvero credono sia in corso un intervento umanitario per impedire a Gheddafi di massacrare il proprio popolo sono una netta minoranza.
Quali sono state le prese di posizione delle organizzazioni “no war”?
Precisiamo subito che il movimento pacifista paga, secondo me, un vizio di fondo. Ha avuto un buon seguito ed un ruolo vistoso in occasione delle guerra contro la Serbia o di quella contro l’Iraq, perché erano conflitti che venivano dopo alcuni anni di pace, mentre oggi siamo completamente assuefatti alla guerra: è dal 2001 che vi sono conflitti ininterrotti. Inoltre, si situava in un clima particolare: quello del post-Guerra Fredda, dell’idea che la storia fosse finita e che non vi sarebbero state più guerre. Oggi prevale invece lo scetticismo: si è capito che la politica internazionale è ancora dinamica, che ci sono degli attori che fanno i propri interessi, che ci sono degl’interessi confliggenti che talvolta danno vita a conflitti armati. Il fascino del movimento pacifista è diminuito. Gran parte della popolazione accoglie le guerre con rassegnazione, talvolta persino con disinteresse. Essa non pare toccare i suoi interessi più tangibili: è vero che le guerre sono costose, ma vengono finanziate non attraverso tasse ad hoc, bensì stornando discretamente i fondi da altri capitoli di spesa. Le vittime sono quasi esclusivamente dal lato dell’avversario, perché si tratta di guerra coloniali e non tra paesi di pari potenza. Anche oggi l’ostilità alla guerra in Libia deriva principalmente dal timore, giustificato, che essa comporterà un maggiore afflusso di profughi ed immigrati nel nostro paese. Quest’argomento è particolarmente sentito nell’elettorato di Centro-Destra, mentre paradossalmente quello di Centro-Sinistra appare il più convinto della bontà di questa guerra neocolonialista. Ciò indebolirà notevolmente la capacità di mobilitazione popolare del movimento pacifista, che non può certo rivolgersi agli elettori della Lega Nord: la quale, tuttavia, potrebbe ottenere un grosso successo elettorale alle prossime elezioni amministrative. Ciò potrebbe avere un suo effetto e mutare nuovamente l’atteggiamento del Governo verso l’aggressione subita dalla Libia.
* Daniele Scalea, segretario scientifico dell’IsAG e redattore di “Eurasia”, è autore de La sfida totale (Roma 2010) e co-autore con Pietro Longo d’un libro di prossima pubblicazione sulle rivolte arabe.